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La parola della settimana è gabbia, dal salario al Messico. Si salva solo Titti

La parola della settimana è gabbia, dal salario al Messico. Si salva solo Titti

12 luglio 2019, 17:04

di Corrado Chiominto

ANSACheck

Dal web - RIPRODUZIONE RISERVATA

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Quando un termine occupa le prime pagine dei giornali oppure lo troviamo particolarmente ostico, o semplicemente ci piace rifletterci un po' sopra, ci si soffermeremo. E, questa volta, la scelta è caduta sulla parola "GABBIA"

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Una gabbia può essere "dorata". Ma "sentirsi in gabbia" non è certo una sensazione gradevole. Del resto "mettere in gabbia" significa mandare in prigione, perdere la libertà. Ma anche trovarsi in una "gabbia di matti" può non essere un’esperienza piacevole. Insomma, la parola "gabbia" non ha certo un’accezione positiva. E così – con tutta la sua carica negativa - è tornata a fare capolino nel dibattito politico, quando il vicepremier cinquestelle Luigi Di Maio ha accusato il suo alter ego leghista Matteo Salvini di voler introdurre le gabbie salariali con il suo progetto sull’ Autonomia.

Il meccanismo delle gabbie salariali prevede salari parametrati al costo della vita nelle diverse aree territoriali. Per alcuni mette il coltello su un gap esistente, per altri pareggia il conto dovuto a differenze reali. In Italia sono state cancellate quasi 50 anni fa e, secondo alcuni, sarebbero tra le ragioni che hanno alimentato il differenziale di crescita tra il Nord e il Sud.

In Italia l'introduzione arrivò con un accordo firmato il 6 dicembre 1945 tra industriali e organizzazioni dei lavoratori, ma la loro prima entrata in vigore venne fissata nel 1946, prevista inizialmente solo al Nord. Dal ’54 vennero estese a tutta l’Italia: il Paese fu diviso in 14 aree, con differenze che potevano arrivare a sfiorare il 30%. Servì una stagione di lotte sindacali per portare nel 1969 al loro superamento, anche se l’addio fu graduale e la scomparsa reale è del 1972, appena in tempo prima dell’arrivo del drammatico 1973 dell’austerity.
   

L’accusa principale fatta alle "gabbie salariali" è quella di creare discriminazioni tra lavoratore e lavoratore, introducendo una normativa quasi paradossale in un mondo nel quale le distanze si sono ridotte e talvolta il posto di lavoro si raggiunge con l’ "alta velocità".

La gabbia, anche se tra le sbarre può passare l’aria, rimane invece una barriera insuperabile, ed è forse segno dei tempi, visto il moltiplicarsi dei muri. Parlano chiaro in questo caso le immagini di altre gabbie, gabbie reali. Quelle dei centri di detenzione in Libia o quelle, sempre drammatiche, dei centri migranti al confine tra Usa e Messico, con celle sovraffollate e un 30% di bambini, nelle quali si può stare solo in piedi. Anche in questo caso c’è la conferma che l’unica declinazione positiva della parola gabbia la si trova se si pensa all’uccellino Titti, che dopo aver svolazzato per la casa la usava come rifugio dalle unghiate dell’impacciato Gatto Silvestro. Una caso unico in cui le ombrellate della nonnina, innoque e vigorose, arrivavano in testa a chi dalla gabbia era rimasto fuori.

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