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Brexit: Juncker, ancora non ci siamo, non sono ottimista

Lavoro va avanti. Si rivedranno prima di fine mese. Corbyn a scissionisti, dimettetevi e si rivoti

"Stiamo facendo tutti gli sforzi perché" la Brexit "sia organizzata, in modo civile, ordinato e ben pensato, ma non ci siamo ancora - ha detto il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, nel suo intervento al Comitato economico e sociale -. Perché al Parlamento britannico votano sempre contro qualcosa, non c'è mai una maggioranza a favore. Se ci sarà un no deal, e non lo posso escludere, ci saranno enormi conseguenze. Cerchiamo di evitare il peggio, ma non sono molto ottimista". 

Alla Commissione Ue "abbiamo avuto una serie di discussioni franche e informative. Il pericolo di una Brexit senza accordo è molto serio e presente": così il leader laburista Jeremy Corbyn all'uscita dal suo incontro col capo negoziatore dell'Ue Michel Barnier. Sulla possibilità di un secondo referendum sulla Brexit "faremo una mozione in Parlamento, come abbiamo già fatto. In quel caso era stato rigettato, ma chiaramente è parte dell'agenda avanzata dal partito Laburista". 

LA GIORNATA DI MERCOLEDI'

Avanti piano, quasi fermi. Niente svolte a Bruxelles, fibrillazioni politiche a Londra: si consuma così l'ennesima giornata interlocutoria sulla Brexit a cavallo della Manica, segnata da un lato dall'incontro definito "costruttivo", ma certo non risolutivo fra la premier britannica Theresa May e il presidente della commissione europea Jean-Claude Junncker; dall'altro dalla mini-scissione in casa Tory di un tris di deputate pro-Remain pronte a fare sponda con gli otto protagonisti della rottura di segno analogo appena innescatasi fra i dirimpettai del Labour. Una scossa che non cambia i rapporti di forza alla Camera dei Comuni, date le dimensioni attuali della doppia ribellione incrociata (tre parlamentari su oltre 300 nel partito della May, otto su 250 in quello di Jeremy Corbyn), ma crea frammentazione e nuove incognite.

E soprattutto mira a dar voce - per ora in laboratorio - a un tentativo di reazione 'moderata' alla svolta o ai cedimenti verso un radicalismo di destra o di sinistra imputati ai due partiti maggiori, complice la Brexit. La premier prova a far finta di nulla nel Question Time del mercoledì, insistendo come un mantra sull'obiettivo di chiudere definitivamente un accordo di divorzio con l'Ue in tempo per la sempre più vicina data d'uscita del 29 marzo, non senza evocare "soluzione alternative legalmente vincolanti" per allontanare il backstop, la contestata clausola teorica di salvaguardia d'un confine post Brexit senza barriere fra Irlanda e Irlanda del Nord. Quindi, polemizzando con Corbyn, avverte che l'unico modo di evitare lo spettro di un traumatico no deal resta quello di "approvare un deal" in Parlamento, visto che l'alternativa di rimettere in discussione la Brexit in quanto tale sarebbe ai suoi occhi un tradimento del mandato popolare del referendum del 2016. Mentre nega - aggrappandosi alle spiegazioni ufficiali rimbalzate da Tokyo - che l'annunciata chiusura della Honda dello stabilimento di Swindon abbia a che fare con le incertezze dell'addio all'Ue. Poi, a Bruxelles, va in scena un faccia a faccia con Juncker e Michel Barnier, avaro persino dei sorrisi di rito, dal quale non emerge se non l'impegno a "esplorare" nuove opzioni sul backstop e a rivedersi per "valutare i progressi nei prossimi giorni".

Ma intanto a Westminster le tensioni interne ai partiti montano. L'ultima dimostrazione arriva dalla non inattesa defezione dal gruppo conservatore di tre deputate dissidenti dalla linea di May sulla Brexit: Anna Soubry, Heidi Allen e la brexiteer pentita Sarah Wollaston, indignate per una strategia politica "pesantemente sotto il controllo" dei falchi Tory euroscettici dell'Erg (European Research Group) e degli alleati della destra unionista nordirlandese del Dup. La premier le snobba dicendosi "rattristata" per la loro scelta, ma convinta di essere lei "sulla strada giusta". Il terzetto non esita da parte sua a unirsi al Gruppo Indipendente costituto dal drappello di esponenti della destra laburista (diventati ora otto con l'adesione dell'ex sottosegretaria blairiana Joan Ryan) usciti a loro volta dalla propria 'parrocchia': in polemica con Corbyn, accusato di non essere sufficientemente anti-Brexit oltre che di aver lasciato infettare il partito dalla "piaga di un antisemitismo di estrema sinistra". In totale si tratta per ora solo di 11 parlamentari, ma con l'ambizione di rappresentare gli irriducibili del fronte pro Remain (e pro referendum bis), di far campagna fra il 48% degli elettori sconfitti nel voto del 2016 e di dar vita a una 'terza forza' forse più centrista moderata che di centro sinistra. Anche a dispetto del fallimento storico di quasi tutti gli esperimenti del genere nel ferreo sistema politico uninominale maggioritario britannico.

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