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Pandemie e day after: la peste noir di Colson Whitehead

Romanzo metaforico sull'America colpita da un terribile morbo

Se una cosa ci ricorda questa pandemia è che la natura è sempre più forte, più resistente dell'uomo. Non per nulla molti scrittori (e poi drammaturghi, registi di film e artisti diversi) da sempre hanno raccontato e creato storie esemplari, tra cronaca e metafora, su pestilenze, epidemie e altri cataclismi che cancellano o quasi il genere umano dalla terra e ne mettono a nudo la sua vera natura. Allora questi romanzi, queste cronache di day after, queste supposizioni di arrivo al limite e di salvezza in extremis, con cui viviamo una qualche consonanza, possono essere qualcosa che ci aiuta a capire e riflettere su quel che ci sta accadendo in questo inizio 2020, magari a metabolizzarlo in qualche modo, così da ripartire, come si dice ora, sapendo almeno un poco di più chi siamo.
    E' di nove anni fa un romanzo horror metaforico di Colson Whitehead, ''Zona Uno'' (Einaudi, pp. 312 - 18,00 euro - traduzione di Paola Brusasco) che, ispirandosi ai mitici film di Romero, ci racconta l'America dopo una devastante pandemia che lasciato gli esseri umani in tutta la Terra divisi in due categorie, i vivi e i morti viventi. Qui siamo a Manhattan, l'isola simbolo di New York e degli Usa, che è in mano ai morti viventi i quali, praticamente senza vita propria, perduta ogni umanità, si nutrono di altri uomini infettandoli inesorabilmente, e, all'interno di questa degradata situazione generale, mille altri avvenimenti simbolici prendono vita, grazie alla ricchezza d'invenzioni dell'autore di narrazioni nuove e avvincenti come ''L'intuizionista'' o ''Ferrovia sotterranea''.
    La paura si impossessa di tutti davanti al morbo sconosciuto e aggressivo, ''all'inizio i sogni, notti al sicuro permettendo, privilegiano i paradigmi d'ansia più comuni''. Le persone sembrano preda di un'assurda follia che per certi versi si lega alle distorsioni e ai danni di un capitalismo americano estremo, ma il romanzo innesta su questa realtà il disperato desiderio di una minoranza che riesce a salvarsi e a far prevalere la propria umanità perduta. In una situazione molto diversa è comunque un po' come oggi da noi si discute di come cogliere l'occasione della malattia per cambiare e raddrizzare una società piena di incongruenze e ingiustizie.
    Manhattan è in mano ai mostri infetti e un gruppo di disinfestazione si è attestato nella punta meridionale, da cui avanza palazzo per palazzo, seguendo gli ordini che arrivano da Buffalo, dove si è insediato un governo provvisorio che tenta di riconquistare il Paese e rendergli normalità. Con loro c'è una persona chiamata ironicamente da tutti Mark Spitz, perché non sa nuotare come non riesce a fare mille altre cose e non eccelle in nulla, sempre in bilico tra il riuscire e il fallimento, come invischiato in una vita piatta, che lo rende quasi invisibile, qualunque. Gli inetti e coloro che sanno mettersi in vista, infatti, finiscono per non far attenzione e star concentrati su se stessi e quel che stanno vivendo, facendosi così facilmente notare, diventando subito vittime di chi non aspetta altro per farne un buon boccone.
    Dopo essersi dispersi in molti in fughe individuali disperate, mentre il contagio avanzava inarrestabile, i pochissimi sopravvissuti provano a riunirsi e pian piano a organizzarsi per reagire a tanto delirio di ludica violenza.
    Sono persone comunque provate: ''Tutti quelli che si vedevano se ne andavano in giro con una zoppia psicologica, una spalla più bassa qui, una palpebra disobbediente e mezzo chiusa là, e l'attuale pezzo forte, un accartocciamento generale, come se l'anima stesse implodendo o la mente risucchiasse le estremità dentro di sé''. Così a chi si unisce viene fatto il terzo grado: ''A volte ci arrivano certi infelici, gente cui è stata rubata l'anima e vedo che genere di roba hanno dietro gli occhi''. A Manhattan sono le ultime sacche di resistenza, composte da soggetti infetti che non si sono trasformati completamente in zombie e vivono in uno stato mediano semicatatonico, ma pronti a reagire con violenza. E' lì che opera appunto il gruppo di Spitz che tenta di chiudere ermeticamente metropolitane, tunnel, ponti e altre vie di fuga poco conosciute o segrete per avere in mano tutta l'isola e ripulirla a fondo.
    Per godere questo romanzo, e esserne alla fine presi, bisogna accettare questo gioco esemplare, quello dello Skel, lo scheletro che mangia i vivi, per trasformarli a loro volta in zombie, che è anche tema di una vicenda centrale nella esistenza del nostro Mark Spitz, come sapremo quando la racconterà, come estrema confidenza, a una donna che incontra per caso e con cui vive momenti d'amore intensi e nostalgici, barricati dentro un negozio di giocattoli. Del resto i pensieri di Mark, il suo riflettere, ricordare, alternare il passato al presente, sono la parte migliore e più intensa del libro, che ha pagine macabre certo (come quella in cui la madre divora il padre raccontata da Spitz), ma anche momenti quasi lirici, che sono poi il segno del sopravvivere di certi sentimenti e di un'umanità che può avere un futuro. Una lettura interessante, visto quel che sta accadendo oggi negli Stati Uniti col coronavirus. (ANSA).
   

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