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Cura i migranti dei centri di detenzione libici, 'sembra il Medioevo'

All'Ospedale di Monza, 'la chiamiamo la chirurgia della tortura'

Redazione ANSA

Yusuf, cosparso di benzina e dato alle fiamme in un centro libico, rimasto vivo per miracolo. Ali, in ipotermia al punto da perdere l'uso delle mani nel disperato tentativo di salvare un amico intrappolato nella neve sul Frèjus (i nomi sono di fantasia). Entrambi migranti provenienti dall'Africa e arrivati all'Ospedale San Gerardo di Monza per essere curati dalle terribili ferite riportate.
Sono solo due delle migliaia di casi che continuano a consumarsi tra i campi di detenzione in Libia, i valichi di frontiera sulle Alpi, sui barconi in Mediterraneo. Storie di giovani torturati, di ragazzi che intraprendono viaggi a rischio della vita nel tentativo di allontanarsi dalla povertà e dall'orrore che hanno vissuto.

Le racconta Massimo Del Bene, direttore responsabile del reparto di Chirurgia plastica ricostruttiva, chirurgia della mano e microchirurgia ricostruttiva dell'Ospedale lombardo.

"Da circa tre anni curiamo migranti scappati dalle torture subite nei lager di diversi Paesi dell'Africa Subsahariana. Si tratta nella maggior parte dei casi di uomini giovanissimi. In media hanno vent'anni. Hanno le mani schiacciate, tagliate con un machete, ustionate dalla benzina. Immagini che ci riportano al Medioevo, che ci parlano di torture primordiali".

Nel reparto del chirurgo arriva sotto forma fisica la violenza indicibile in cui è rimasto intrappolato un numero non ancora ben definito di giovani, per il solo fatto di aver lasciato la propria terra in cerca di una vita migliore. "Un ivoriano di 18 anni che d'inverno aveva provato ad attraversare il Fréjus per arrivare in Francia, ha perso tutte le dita delle mani, congelate nel tentativo di salvare un amico sepolto dalla neve. Un altro migrante giovanissimo è stato dato alle fiamme, ed è arrivato con segni profondissimi sugli arti superiori e sul tronco", ricorda Del Bene. Ferite spesso irrecuperabili, su cui i medici di Monza si trovano a dover agire con modalità operative diverse rispetto a quelle solite perchè i pazienti non arrivano dalla scena di un incidente stradale, ma dall'inferno. E c'è anche il tempo, tra le cause dei problemi principali che i medici devono affrontare, quando si trovano davanti i segni delle torture: "La difficoltà maggiore è intervenire su ferite che a volte sono vecchie di anni - spiega il chirurgo - ossa delle mani che si sono calcificate in modo errato. Cicatrici deformi di ferite non curate. Qui in Italia di solito interveniamo su vittime di incidenti avvenuti da poche ore con la cosiddetta chirurgia post-traumatica. I migranti invece hanno bisogno di un intervento diverso. Quello che io chiamo chirurgia della tortura".
Ed è proprio il contatto ravvicinato con queste storie che ha spinto Massimo del Bene verso nuovi progetti umanitari: "Il mio sogno più grande è realizzare un Centro per i bambini vittime di guerra. Sul campo, i piccoli vengono solitamente curati con soluzioni drastiche, come l'amputazione di un braccio o di una gamba. È vero che in questo modo gli si salva la vita, ma contemporaneamente li si condanna ad un destino senza uscita. In certi luoghi si sopravvive solo grazie ai lavori manuali, che richiedono molta fatica fisica. Lavori non adatti ad una persona a cui manca un arto. Così finisce che per la maggior parte di questi bambini amputati ci sia solo un futuro da mendicante".
"Se invece venissero curati in Italia - spiega - nel Centro per vittime di guerra che io immagino, potrebbero non solo sopravvivere, ma avere la possibilità di una vita migliore. L'idea è di stabilizzare i pazienti sul posto e poi trasportarli nel nostro Paese, dove potrebbero ricevere cure all'avanguardia, adeguate alla loro situazione, e non semplicemente di emergenza".
Di personale medico e sanitario disposto a prendersene cura, dice il chirurgo, ce ne sarebbe tanto: "Sono moltissimi i medici e i professionisti sanitari che dedicherebbero volentieri parte del loro tempo ad un progetto di volontariato di questo tipo. Si tratta di specialisti che per diversi motivi non andrebbero personalmente nei luoghi di guerra, ma che sarebbero contenti di offrire la propria professionalità gratuitamente". "Ovviamente conclude Del Bene - ci sarebbe da sostenere i costi di trasporto del paziente, del mantenimento del Centro e dell'accoglienza dei familiari per l'assistenza del paziente durante la degenza. Per questo speriamo di trovare al più presto un contributo da parte di benefattori privati".

 

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