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Stefania, oggi insegno e penso ai miei studenti

Stefania, oggi insegno e penso ai miei studenti

Ma per molti anni ho pensato solo alla mia malattia, il melanoma

14 marzo 2016, 17:57

Redazione ANSA

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Stefania, oggi insegno e penso ai miei studenti - RIPRODUZIONE RISERVATA

Stefania, oggi insegno e penso ai miei studenti -     RIPRODUZIONE RISERVATA
Stefania, oggi insegno e penso ai miei studenti - RIPRODUZIONE RISERVATA

Ho un diploma di insegnante di educazione fisica, una specializzazione come insegnante di sostegno e una laurea in Scienze dell’Educazione, vivo e lavoro a Roma. Al momento della diagnosi di melanoma avevo trentasei anni. La mia pelle è sempre stata molto delicata, chiara, con lentiggini e nei. Per questo prima della malattia mi sono sempre sottoposta a controlli periodici, una volta l’anno, finché, nel dicembre 2001, durante una visita dermatologica di routine, la dermatologa notò un neo nella zona lombare e mi disse che doveva essere tolto il prima possibile. In quel periodo stavo però concludendo gli studi universitari, così pensai che avrei potuto aspettare qualche mese, anche in vista della laurea. Terminati gli studi nel marzo 2002, il mese successivo decisi di tornare dalla dermatologa che mi asportò immediatamente il neo poiché erano cambiate forma e dimensioni. Dopo due settimane dall’intervento ricevetti la diagnosi: era un melanoma. La dermatologa mi spiegò che era un melanoma piccolissimo.

Aumentai così la frequenza dei controlli, non più una volta all’anno ma una volta ogni tre mesi, i medici mi rassicurarono dicendomi che la probabilità di guarigione era del 95% e soprattutto che, data la dimensione, difficilmente quel tumore avrebbe originato metastasi. Ero sposata, avevo una bambina di tre anni. Mi dissero che avrei potuto affrontare tranquillamente una seconda gravidanza; così, nel 2004 ero in attesa della mia seconda figlia. Fu al settimo mese di gravidanza che mi accorsi che nel lato inguinale sinistro si erano formati alcuni noduli. Dall’ecografia risultarono ingrossati i linfonodi. Non sembrava che la cosa fosse riconducibile al melanoma, perché in quel periodo mi sottoponevo a controlli regolari, ecografia e lastra al torace ogni sei mesi. Ho sempre lavorato anche in gravidanza, fino all’ottavo mese. Partorii a luglio 2004 e a settembre presso l’ospedale S. Eugenio di Roma decisero di rimuovere un nodulo e di analizzarlo; durante l’intervento si accorsero però che si trattava di metastasi da melanoma per cui mi tolsero 25 linfonodi di cui 23 risultarono positivi. Quando andai a ritirare l’esame istologico il chirurgo che mi aveva operato mi disse chiaramente e freddamente che purtroppo per il melanoma non esisteva alcuna terapia a eccezione di quella chirurgica. Su consiglio dei medici mi sono sottoposta all’esame della pet presso l’Ospedale San Raffaele di Milano. Da quell’esame risultarono altri linfonodi patologici nella zona iliaco otturatoria. A dicembre decisi di cambiare struttura e andare all’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma (ifo). Qui, nel dicembre 2004, mi furono asportati altri 34 linfonodi che risultarono, purtroppo, tutti positivi e mi fu comunicato che non era prevista una vera e propria terapia e che si poteva solo procedere con l’interferone.

In quel momento non vi erano alternative dal punto di vista terapeutico. Iniziai a fare ricerche su Internet prendendo sempre più consapevolezza che il melanoma era una malattia terribile! Provavo paura e disperazione, ero preoccupata soprattutto per le mie bambine, la seconda aveva soltanto due mesi. Non sono mai caduta in depressione, dopo la disperazione subentrava una grande forza. «Le mie bambine sono troppo piccole, devo trovare il modo di sopravvivere, andare avanti e cercare di crescerle!», pensavo. Purtroppo ho potuto allattare mia figlia solo per qualche mese poiché sono stata sottoposta a molti esami diagnostici. Il secondo intervento fu molto invasivo, ebbi problemi alla gamba sinistra e fu difficile tornare a camminare e riprendere la normale funzionalità. Saltai l’intero anno scolastico, non ero in grado di lavorare né fisicamente né psicologicamente. Durante quel periodo la mia famiglia mi è stata vicino, mio marito soprattutto si è occupato della casa e delle bambine. Purtroppo in questa situazione alcune persone si sono allontanate, forse per paura o semplicemente perché è difficile stare vicino a una persona con un problema così grave. Così ho constatato che non tutti hanno la capacità e la voglia di essere di aiuto. Talvolta anche oggi incontrando quelle persone, noto il loro imbarazzo, glielo leggo in faccia. Ma fortunatamente tante altre mi sono state vicine. Molto, molto vicine. La malattia fa vedere quali sono i veri amici. Non so se è davvero così, ma credo che esista una componente ereditaria nel tipo di tumore che mi ha colpito. La sorella di mio padre all’età di ottant’anni aveva tolto un melanoma sul viso, alcuni anni dopo l’asportazione del mio tumore anche mia sorella ricevette la stessa diagnosi di melanoma fortunatamente in situ, cioè in stadio molto precoce. I miei genitori erano al corrente della mia condizione, mia madre mi aiutava soprattutto sul piano pratico, si occupava delle bambine e della casa. All’inizio della mia malattia piangevo continuamente, non riuscivo a farmene una ragione, mi chiedevo in maniera ossessiva perché mi fosse capitato questo, a ogni persona che incontravo raccontavo quello che mi era successo, avevo bisogno di comunicare, parlare, far sapere.

Mi rendevo conto che le persone non sapevano come aiutarmi, cosa dire, anche perché vivevo questa esperienza con grande disperazione e di fronte alla disperazione è normale restare senza parole. Per affrontare più serenamente la situazione, su consiglio dell’oncologa dell’ifo, mi sono fatta aiutare da una psicologa, sono stata in terapia per cinque anni. Le sedute si svolgevano inizialmente una volta a settimana, poi una volta al mese e ho trovato in questo modo un grande supporto, mi sentivo sollevata anche di non caricare gli altri delle mie angosce. Sto con mio marito da molto tempo, ma dal momento della diagnosi il nostro rapporto è cambiato: per molti anni ho avuto in testa solo la mia malattia, avevo molta paura. Non riuscivo a riservare spazio ad altre cose, a parte le mie figlie. Non mi interessava più nulla, non leggevo più, non andavo al cinema perché non riuscivo a seguire un film. Ero completamente presa dal mio problema. La relazione con mio marito ne ha risentito molto, anche se lui cercava continuamente di riportare tutto alla normalità. A me non interessava più nulla. Mi rendo conto che anche lui ha passato momenti brutti, dolorosi. Lavora in banca nel settore commerciale e, seppure molto impegnato, ha trovato il tempo per occuparsi degli aspetti pratici. Nel 2005 ho fatto la terapia con l’interferone fortunatamente senza effetti collaterali. In quel periodo conobbi una ragazza che aveva vissuto la mia stessa esperienza anni prima. Lei mi fu molto vicina, ci sentivamo quasi quotidianamente e insieme abbiamo fatto molte ricerche per trovare terapie alternative o cure innovative per superare la malattia. Una dottoressa ci consigliò una sperimentazione in corso in Israele. Riferii alla mia oncologa l’intenzione di intraprendere questa strada ma lei cercò di dissuadermi e mi mise in contatto con un’immunologa del Regina Elena che riuscì a farmi entrare in un programma di vaccinoterapia a Francoforte, al Ludwig Institute. Iniziai ad aprile 2006, andavo in Germania una volta ogni tre settimane. Dovetti sostenere il costo delle trasferte… ma per curarsi una persona è disposta a tutto. A novembre 2006 al vaccino fu unita anche la chemioterapia con la dacarbazina, in dodici cicli. Reagii male dal punto di vista psicologico, ero spaventata, ma risposi bene a questo trattamento. Andavo da sola in ospedale, volevo affrontare direttamente la cosa. La terapia è durata fino a marzo 2008, per due anni. Ogni tre settimane prendevo una giornata di permesso, di solito il lunedì, andavo in ospedale a Francoforte, dove mi veniva inoculato il vaccino e la sera tardi ero di nuovo a casa. Il giorno successivo tornavo al lavoro. Purtroppo le metastasi ricomparvero, ai linfonodi in zona paraortica sinistra, in sede iliaca comune a destra, in sede iliaca esterna a destra e inguinale a destra.

Avevo sperato che la malattia non si ripresentasse, perché confidavo molto nella vaccinoterapia. Così, di nuovo, caddi nella disperazione assoluta. Ad aprile 2008 mi asportarono altri 15 linfonodi, di cui 13 positivi. Nel maggio 2008, dopo tre cicli di chemioterapia le metastasi risultarono leggermente regredite. Questa cura non mi impedì di lavorare o stare con la mia famiglia poiché gli effetti collaterali li tolleravo abbastanza bene, per cui ho cercato di condurre una vita, per quanto possibile, normale. Ad agosto 2008 l’immunologa mi propose un’altra vaccinoterapia all’Ospedale di Francoforte. A febbraio 2009 purtroppo comparve una metastasi nel cavo ascellare sinistro. Il 25 febbraio 2009 iniziai un altro ciclo di trattamenti chemioterapici a base di cisplatino. Ricordo ancora quel giorno… fu devastante, perché proprio in quel giorno mio padre morì e io dovetti comunque sottopormi alla terapia. Ogni ciclo di chemioterapia durava tre giorni; nei dieci successivi ero immobilizzata sul letto, senza forze, non riuscivo a fare nulla, mi sentivo totalmente debole. Questo fu sicuramente il periodo peggiore: gli effetti collaterali erano veramente terribili, avevo davvero la sensazione di morire. «Se non muoio per il tumore, mi ucciderà la chemioterapia», pensavo. L’unico effetto collaterale che non ho avuto è stato la perdita dei capelli. Intanto avevo però comprato una parrucca. Alle mie figlie non ho mai parlato della mia malattia, volevo e voglio farle crescere tranquille senza ansie e preoccupazioni. Nel 2011 all’ifo, nel centro diretto dal prof. Francesco Cognetti, sono entrata in uno studio sperimentale con ipilimumab, un nuovo farmaco immunoterapico. Ben tollerato, dopo quattro infusioni ha dato risultati positivi. Finalmente la malattia stava regredendo! Mi sono sottoposta regolarmente ai controlli negli anni successivi e andava tutto bene. Nel 2013, la tac evidenziò una probabile ripresa della malattia, perciò su decisione dei medici ho ripetuto sei cicli di ipilimumab che iniziai nel dicembre del 2013.

Questa volta ho avvertito alcuni effetti collaterali, molta debolezza e problemi a livello endocrinologico, fui costretta infatti ad assumere pesanti dosi di cortisone. Poi all’inizio di quest’anno, finalmente una buona notizia: l’ultimo esame pet è andato molto bene, nulla di patologico. Non mi sembra ancora vero, ho paura a crederci. L’immunoterapia permette sicuramente una qualità di vita migliore rispetto alle cure tradizionali e ha ridotto notevolmente le macchie da melanoma che avevo sulla gamba sinistra. Certo… dopo aver subito tante terapie, il mio corpo non è più in grado di fare alcune cose, ma non è un problema. Continuo i miei controlli ogni tre mesi, non voglio credere di essere guarita ma voglio credere che esiste una cura e che questa cura mi ha dato la possibilità di rinascere e di progettare un futuro. I medici dell’ifo mi hanno sempre seguito con attenzione e molta professionalità, in modo particolare l’immunologa, che, oltre ad avermi aperto la strada verso le terapie immunologiche, mi ha sempre sostenuta psicologicamente, mi ha dato coraggio e speranza. La mia riconoscenza verso queste persone non ha fine. Le mie figlie oggi hanno quindici e dieci anni. Quando saranno più grandi, racconterò loro la mia esperienza. Spero che non mi rimprovereranno di aver loro nascosto questo periodo difficile della mia vita perché l’ho fatto solo per proteggerle e per lasciarle crescere tranquille. Il rapporto con mio marito è diventato più difficile dopo la malattia, questa esperienza ha cambiato in me molte cose, il mio modo di pensare e di vedere. Molto concentrata sulle mie figlie, molto selettiva nei confronti delle persone, ma ancora in grado di dare. Ora non sono più dolorosamente ripiegata su me stessa: fare l’insegnante di sostegno mi ha aiutato molto, pensare agli altri, concentrarmi sul mio lavoro è stato d’aiuto. Oggi lavoro con una ragazza autistica e con una ragazza con un’emiparesi. La mia esperienza, pur terribile, mi dà ancora più forza per stare vicino a loro e i loro progressi e traguardi mi danno molta gioia. Poterle aiutare mi riempie di orgoglio. Con una lacrima piena di speranza e di profonda gratitudine e con un sorriso.

(dal libro 'Si può vincere', a cura di mauro Boldrini, Sabrina Smerrieri, Paolo cabra)

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