Il susseguirsi delle terapie messe a punto per le persone con emofilia A ha permesso di arrivare a cure sempre più sicure e meno invasive, ed è emblematica del progresso fatto dalla medicina negli ultimi 50 anni. A spiegarlo all'ANSA è Giancarlo Castaman, direttore del Centro Malattie Emorragiche dell'Ospedale Careggi di Firenze. Il primo tipo di cure per questi pazienti soggetti al rischio di emorragie "furono, negli anni 60-70, le trasfusioni di sangue intero o sue frazioni plasmatiche, ma con scarsa disponibilità per coprire il fabbisogno e risultati insoddisfacenti: in alcuni casi si arrivava anche a più di 30 trasfusioni l'anno. A partire degli anni Ottanta è iniziata la produzione industriale di plasmaderivati da donatori di sangue, ma la diffusione dei virus HIV e HCV, allora non nota, ha comportato una crisi drammatica. Lo sviluppo di metodi in grado di uccidere i virus sui concentrati e dei test di screening ha portato al controllo del rischio infettivo. Tuttavia, gli emofilici oggi adulti sono in buona parte venuti a contatto con tali virus in passato, anche se le moderne terapie anti-virali hanno ne consentito la guarigione o la cronicizzazione. Risale a inizio anni Novanta la prima 'rivoluzione', con la produzione, da colture cellulari in vitro, di concentrati ricombinanti VIII e IX ricombinati, ovvero completamente sicuri da rischio infettivo e possibili da produrre in grandi quantità. "Questo - spiega l'esperto - ha consentito di iniziare a utilizzarli non solo per curare le emorragie, ma soprattutto per prevenirle. Questo ha permesso a una nuova generazione di pazienti, oggi ventenni, di avere una vita quasi normale, con una riduzione drastica di episodi emorragici e di danni articolari (artropatia emofilica)". Questa terapia però prevede infusioni endovena 2 o 3 volte a settimana per tutta la vita e non è facile da portare avanti. In particolare nei bimbi è più difficile trovare la vena e a volte diventa necessario inserire un catetere venoso, con conseguente rischio di infezioni o ostruzioni. Una seconda rivoluzione è arrivata un paio di anni fa. Circa il 30% dei pazienti con emofilia A grave sviluppa un inibitore del fattore VIII, che rende inefficace la somministrazione dei concentrati contenenti questo fattore. Per superare il problema è stato sviluppato un anticorpo monoclonale, l'emicizumab, che simula l'azione del fattore VIII ma non viene riconosciuto dagli anticorpi inibitori. Inoltre, la sua somministrazione con una puntura sottopelle rende la terapia meno invasiva rispetto alle infusioni. "Per i pazienti con inibitori del fattore VIII, emicizumab è disponibile dal 2018. Ora, - prosegue Castaman - con il via libera della rimborsabilità da parte dell'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), può essere utilizzato anche per pazienti emofilici senza inibitori, ovvero che non hanno sviluppato un anticorpo contro il fattore VIII ricombinante. Con un grande beneficio per la gestione di questa malattia".
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Roche