Quotidiano Energia - Le norme italiane sugli affidamenti “in house” dei contratti pubblici finiscono alla Corte Ue. E secondo il Consiglio di Stato ci sono buone possibilità che i giudici comunitari le reputino illegittime. Secondo il CdS, infatti, la posizione “subordinata” che il nostro ordinamento assegna alle “vie interne” per l’assegnazione di beni e servizi rispetto alla gara non sembra in linea con le disposizione europee in materia.
Nella causa intentata da Riecco contro il Comune di Lanciano per l’assegnazione alla partecipata (al 21,69%) Ecolan del servizio di igiene urbana, quindi, il Consiglio ha deciso il rinvio alla Corte di Lussemburgo.
“Si tratta di stabilire se questo restrittivo orientamento ultradecennale dell’ordinamento italiano in tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea”, afferma il CdS. Aggiungendo che, in base a un primo esame, la normativa Ue “non sembra consentire l’introduzione di disposizioni volte a riconoscere a una delle modalità di attribuzione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche (come l’affidamento in house) un ruolo giuridicamente subordinato rispetto alle altre”.
Il quesito posto è quindi “se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e i principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una normativa nazionale (come quella dell’articolo 192, comma 2, del ‘Codice dei contratti pubblici, decreto legislativo n. 50 del 2016) il quale colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto: i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a tale forma di affidamento”.
Va da sé che un'eventuale bocciatura da parte dei giudici comunitari sarebbe una vera rivoluzione per l'intero assetto che la normativa sta cercando di imprimere (a dire il vero con fatica) al settore.
Il CdS rinvia alla Corte Ue anche per un’altra questione, relativa questa volta all’articolo 4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate (Tuspp), secondo cui “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”.
Il quesito è “se il diritto dell’Unione europea (e in particolare l’articolo 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a una disciplina nazionale (come quella dell’articolo 4, comma 1, del Testo Unico delle società partecipate – decreto legislativo n. 175 del 2016 -) che impedisce a un’amministrazione pubblica di acquisire in un organismo pluriparecipato da altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo pluripartecipato”.